Nei giorni che accompagnano il trentennale della strage di Capaci sono numerosi gli eventi dedicati al ricordo di questa immane tragedia che sconvolse il Paese e provocò la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta.
Quella del 1992 – come noto – fu una stagione tremenda per l’Italia, un vero e proprio spartiacque nella storia della nazione. Mentre il Paese perdeva i suoi uomini più in vista nella lotta alla mafia, caduti con i loro angeli custodi – le donne e gli uomini delle scorte – sotto le bombe di Cosa Nostra, i grandi partiti di massa vedevano terminare il loro corso in maniera traumatica e improvvisa, travolti dall’inchiesta di Mani Pulite.
Nei giorni del trentennale di Capaci, però, credo ci sia un aspetto importante da tenere in considerazione e che riguarda non tanto l’attenzione generale che ogni anno ricade su questi temi – commemorati attraverso cerimonie, film, pubbliche iniziative – ma la consapevolezza che su questi argomenti è ancora presente nella società. Comprendere lo smarrimento di quegli anni bui, capire l’atmosfera che si viveva nel Paese nei giorni delle stragi, conoscere l’Italia di sangue e di mafia ma anche di coraggio di cittadini e uomini delle forze dell’ordine è un esercizio tutt’altro che semplice. Un compito che va però sostenuto e alimentato giorno dopo giorno, anno dopo anno, e che deve coinvolgere soprattutto i giovanissimi. Coloro che saranno i cittadini di domani e che, per motivi anagrafici, tutto questo non l’hanno mai vissuto personalmente ma, magari, solo letto sui libri di storia.
Penso soprattutto alle ragazze e ai ragazzi nati tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila che di mafia hanno sempre e solo sentito parlare in qualche documentario, o attraverso qualche serie televisiva. Sono i ragazzi della così detta «generazione Z», che di Falcone e Borsellino conoscono sicuramente tante vie e piazze, forse le numerose scuole a loro intitolate, ma che non sempre sanno quale sia stato il loro immenso contributo per questo Paese.
In questo senso credo che non ci sia riflessione migliore che quella del Capo dello Stato che, in una toccante iniziativa all’interno dell’aula bunker di Palermo, cinque anni fa, incontrò decine di scolaresche e si soffermò proprio su un concetto tanto semplice quanto complesso da portare avanti concretamente, che vede nel faticoso esercizio della memoria la vera strada per comprendere e celebrare questi drammatici eventi. Ancor più nell’era dei social e delle chat, dove tutto scorre velocemente e tanti concetti importanti, tante grandi questioni, durano il tempo di un click o di un post condiviso al volo sulla propria pagina.
«I mutamenti politici, sociali, di vita quotidiana, prodotti dalla rivoluzione tecnologica e dalle applicazioni del progresso scientifico – ricordava appunto il Presidente Sergio Mattarella – sono così incalzanti da rendere, rapidamente, obsoleti avvenimenti e condizioni del passato. Nell’arco di un decennio, guardando indietro, si ha l’impressione di trovarsi in un’altra epoca».
E il rischio è che troppo facilmente, anche inconsapevolmente, ci si dimentichi di cosa sia stata quell’altra epoca, quanti sacrifici – quanti morti – siano passati per farci vivere oggi più o meno tranquilli.
E non è un caso se proprio in questi giorni il binomio giovani/memoria sia tornato di stretta attualità con le dichiarazioni della senatrice Liliana Segre, sopravvissuta all’orrore delle persecuzioni razziali nella Seconda Guerra mondiale. È stata lei che, che con lucida genialità, durante un’intervista a La Repubblica, qualche giorno fa ha dichiarato che le piacerebbe invitare Chiara Ferragni a visitare il Memoriale della Shoah di Milano. Un modo, ha aggiunto la senatrice novantunenne, per avvicinare i giovanissimi a questi temi e portarli in un luogo che registra ancora troppi pochi visitatori. Se non fosse arrivata da una persona stimata e amata, che ha vissuto personalmente la tragedia della deportazione, in molti avrebbero gridato allo scandalo per questa strana proposta. In realtà il tema c’è e – in maniera più ampia – riguarda proprio l’enorme impatto sociale di questi strumenti per le generazioni di oggi e il modo migliore per promuovere la memoria collettiva nei giovanissimi.
E vengono alla mente, in questo scenario, le parole profetiche di Giovanni Falcone che, nella triste consapevolezza di andare incontro alla morte, ebbe a dire una cosa chiara e potentissima: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini». E le gambe, in questo caso, devono essere forti e giovani, quelle di tantissimi ragazzi che hanno una missione importante, quella di conoscere per tramandare, di approfondire per portare avanti una memoria collettiva, una coscienza condivisa, che su molti temi rischia di perdersi.
Andrea Lezzi (Rubrica BRINDISI VISTA DA ROMA – 20 maggio 2022)
Trentennale della strage di Capaci: i giovani e la sfida della memoria
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