Quando vent’anni fa si decise di istituire una Giornata per commemorare il dramma della Shoah, si fece espresso riferimento alla vergogna delle leggi razziali, alla persecuzione italiana dei cittadini ebrei, agli italiani che «hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte», nonché coloro che, «anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». C’è dunque tanta Italia in questa cerimonia, non solo perché il nostro Paese fu tra i primi in assoluto a concepire una commemorazione di questo genere, ben cinque anni prima che l’ONU la formalizzasse a livello mondiale, ma anche perché in quelle parole sembra esserci la consapevolezza del ruolo dei suoi cittadini in questa tragedia. Le stanze della nostra memoria sono piene di ricordi drammatici di quegli anni, che attraversano la nostra Penisola: storie di famiglie spezzate, di comunità annientate, di genitori persi nei lager e di bambini mai cresciuti.
Dinanzi a questo dramma non c’è dubbio che in questi due decenni la sensibilità e la cognizione di quanto di orribile sia potuto accadere in Europa siano evidentemente aumentate. Il grande lavoro svolto nelle scuole, il ruolo fondamentale dei testimoni diretti di quell’ondata di odio, le numerose iniziative istituzionali, hanno certamente contribuito ad accrescere la consapevolezza dei giovani sul tema dell’Olocausto e in generale del razzismo. E questo è avvenuto perché si è deciso di investire concretamente sull’arricchimento delle nuove generazioni.
Come ricordava lo scrittore Eraldo Affinati, però, «ogni generazione ricomincia da capo». Sbaglieremmo, quindi, a dare per scontato che molti valori, molte conquiste di civiltà, siano ormai parte integrante di ognuno di noi.
Vi è peraltro un paradosso che vede le vecchie generazioni, perché in parte coinvolte, e le nuove generazioni, perché più informate, molto più sensibili a questi temi rispetto al resto della società. E i risultati di questa strana distribuzione sono molto evidenti, con un profluvio di nuovi casi di estremismi, di razzismo, di negazionismo che tornano a riaffiorare ogni giorno sui social network e spesso per mano delle generazioni «di mezzo», non toccate dai drammatici fatti della guerra e meno capaci a un uso pensante e virtuoso della rete. Ma c’è di più, non si può negare che questa ondata di indifferenza per il nostro passato crudele e oscuro, condita da un pizzico di ignoranza, crea un effetto drammatico su tutto ciò che ci sta intorno. Parliamo di una indifferenza spesso in buona fede, dettata più dalla mancanza di riferimenti culturali, di priorità dei valori della vita, ma che – come ha ricordato Liliana Segre – «racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore». La conseguenza, dunque, è l’allontanamento dalle cose realmente importanti, in primis dal bene comune.
«Accadono davvero tante cose», ha scritto Amos Oz, «a ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus, in qualunque sala di aspetto di un ambulatorio, o in un caffè … Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro campo visivo, mentre gran parte del tempo noi restiamo indifferenti, non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone in carne e ossa».
Andrea Lezzi (Agenda Brindisi – 29 gennaio 2021)
Storia e società: quella memoria che dobbiamo scolpire
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