Mi divertiva molto, qualche anno fa, il titolo di una rubrica sulla Cronaca di Roma del Messaggero. Curata da Maurizio Costanzo, si intitolava semplicemente «Fatemi capire». Una schietta e sincera preghiera ad entrare nel merito delle questioni. E corrisponde un po’ al mio stato d’animo dinanzi a molte faccende spesso cavalcate dai media. Per esempio mi colpisce molto l’intensità e l’entusiasmo con cui si sottolineano, in queste settimane, i numeri del southworking, il lavoro agile di chi ha lasciato la propria scrivania al nord per lavorare online dalle proprie città d’origine. Si tratta ovviamente di un fenomeno importante, raccontato anche in questa rubrica, i cui dati incoraggianti – son più di 100.000 i lavoratori in smart tornati al Sud – possono produrre effetti rilevanti per i territori.
Ma se davvero si vuole andare oltre il mero entusiasmo, si dovrebbe iniziare a pensare concretamente a cosa fare di tutte queste «menti» rientrate a casa. Partendo da un assunto: l’emergenza che stiamo vivendo prima o poi terminerà. Per questo la posizione non può essere unicamente quella di esultare perché in tanti han fatto ritorno nelle nostre città. Certo, fa piacere, e sicuramente rappresenta anche un sostegno alla scardinata economia locale, ma poi che si fa?
Evidentemente l’intenzione sarebbe quella di riuscire a trattenere, possibilmente definitivamente, tutti coloro che in questi mesi hanno lasciato fisicamente l’ufficio, e dar loro la possibilità di pensare a un futuro nelle proprie regioni d’origine. C’è chi parla di assumere lo smartworking come strumento abituale dell’attività lavorativa, permettendo a un dipendente di un’azienda milanese – per esempio – di svolgere tutte le attività dal pc a Brindisi. Ma pensiamo possa davvero rappresentare una soluzione di lunga prospettiva? Pensiamo che le aziende, ma anche i Comuni e le attività delle zone coinvolte, non abbiano interesse a vincolare i propri dipendenti a lavorare in quei territori? Lo stesso Beppe Sala, sindaco di una Milano falcidiata dalla pandemia, ha più volte sottolineato la necessità di tornare quanto prima all’ordinaria vita lavorativa.
Per questo la soluzione non può essere quella di «tirare a campare» fino a quando le aziende lo permetteranno, non ne guadagneremmo niente. C’è, invece, da mettere in piedi un nuovo sistema economico-sociale, in cui giovani lavoratori, altamente formati e occupati quasi sempre nel settore dei servizi, possano continuare a svolgere le proprie professioni nelle città meridionali. Assumere giovani specializzati può – a sua volta – diventare un moltiplicatore di posti di lavoro. Nella Silicon Valley si calcola addirittura un rapporto di 1 a 5: assumi un brillante ingegnere e nei servizi nasceranno altri cinque posti per barbieri, commessi, facchini, cuochi e via dicendo. Ovviamente noi non siamo la splendente California ma se c’è una strada su cui poter puntare in questo scenario è proprio quella dell’industria specializzata. In questo la Puglia non è messa così male, caratterizzata dalla presenza di realtà d’eccellenza nel campo aeronautico, navale, di micromeccanica e artigianato.
Attirare i giovani rientrati al Sud con nuove opportunità, rilanciando allo stesso tempo l’economia locale, alzandone la qualità: è questa l’unica strada percorribile. Le risorse non mancano: sgravi fiscali per l’assunzione dei giovani e donne, finanziamenti a fondo perduto e incentivi per nuove attività. E il prezioso Recovery Plan, che – se usato al meglio – potrà cambiare questi territori.
Andrea Lezzi (Rubrica BRINDISI VISTA DA ROMA – Agenda Brindisi 20 novembre 2020)
Società: smartworking, i giovani restino al Sud
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