«Whatever it takes». Grazie all’essenzialità della lingua anglosassone, tre parole sono state sufficienti a rimettere in piedi l’Europa. Era il 2012 e gli speculatori scommettevano sul default dei paesi più deboli. La Grecia in primis, che scontava la crisi del 2008, e a seguire ci sarebbero stati Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo. Il famigerato spread in Italia cominciava la sua ascesa, in quell’anno raggiunse quota 300 punti base. Spread significa differenziale, ossia lo scarto tra il tasso di interesse dei nostri titoli di Stato (Btp) e quello dei titoli di Stato tedeschi (Bund). Rappresenta un indicatore della capacità di un Paese di rimborsare i suoi debiti. Se uno Stato si ritiene poco solvibile il tasso dei suoi titoli sarà alto perché dovrà ricompensare gli investitori del rischio che si assumono. In un circolo vizioso il tasso alto rende più difficile il rimborso dei titoli, quindi spread in crescita = strada verso il default. Il collasso di alcuni Stati membri avrebbe messo in forse la tenuta dell’unione monetaria.
Draghi, allora Presidente della Bce, da tecnico compì una mossa politica. Disse «whatever» e con una manovra poco gradita dalla Banca Centrale fino a quel momento, iniettò liquidità nel sistema acquistando titoli di Stato. Detto in altri termini: pompò soldi nei Paesi che ne avevano bisogno.
Questa manovra fu ripetuta nel 2015, fu chiamata Quantitative Easing, detta QE con un acronimo impronunciabile. Un piano di acquisto titoli ancora più ampio. La liquidità nel sistema bancario favorì il credito alle imprese e ai privati, diede impulso agli investimenti e quindi all’economia tutta. Detto così può sembrare uno sterile passaggio di macroeconomia, ma ognuno di noi avvertì il cambiamento sulla propria pelle. Gli operatori bancari concedevano credito a tassi mai visti, la neo-coppia poteva permettersi un mutuo e acquistare casa, l’imprenditore poteva espandere la sua attività e realizzare quel progetto che aveva sempre sognato. Questo per rispondere a chi saluta la nomina di Draghi come crisi della politica o peggio della democrazia. Un tecnico è anche un politico. Draghi quindi l’uomo della provvidenza? Certo che no. Era politica anche la stagione di privatizzazioni (vendita ai privati di aziende statali) inaugurata negli Anni ’90 sotto la sua egida. Era politica la decisione di interrompere il flusso di liquidità alla Grecia e far rischiare il collasso del sistema bancario. La differenza, tra il politico Draghi e la nostra attuale classe politica, è che Draghi sa quello che fa, nel bene e nel male, quando era economista faceva l’economista, senza altra ideologia, ora è a capo di un governo. E l’Italia non è la Bce. Nei suoi punti all’ordine del giorno compaiono le parole: Coronavirus, crisi economica, ma anche cultura, educazione e sociale.
Tutto lascia presagire che anche stavolta farà «whatever it takes»
Valeria Giannone (Rubrica ALLEGRO MA NON TROPPO – Agenda – 12 febbraio 2021)
Mario Draghi: tutto il necessario
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