Serve l’odore pungente della scapece per festeggiare il Santo Patrono? O il reiterato sbang di piatti infrangibili-solo-sulle-bancarelle-della-festa? O l’acquisto compulsivo di oggetti di comprovata utilità, che chissà perché, in totale spregio delle leggi di mercato, si trovano solo in onore del Santo di turno? Mi sono posta questi interrogativi, quando per il mio reportage ho passeggiato in una Piazza Sant’Oronzo seminuda il 26 di agosto, seguendo il percorso della religiosità.
Pensavo che quest’anno, con la rivincita del sacro sul profano, la festa avrebbe goduto di un’aura di misticismo e di spiritualità come mai prima. E invece, mi sono imbattuta in un Duomo-contenitore delle statue dei tre Santi, posizionate in ordine strettamente gerarchico. Era in corso una cerimonia, una voce forse registrata che in tono monocorde recitava il Rosario. Alla faccia della spiritualità. E’ tutto perduto allora, quest’anno? A Lecce, come a Brindisi avevamo bisogno delle olive in salamoia per la nostra ritualità sacrale? Émile Durkheim direbbe di sì. Il sociologo francese nelle sue analisi parlò di fatti sociali, termine da lui coniato per esprimere la norma, un insieme di valori, credenze, che costituiscono la morale comune. Nell’esaminare la dicotomia sacro-profano, delineava il comportamento sociale o individuale. Il rituale, non è semplicemente espressione della sacralità ma la costituisce, la crea. Il rito si identifica con il senso stesso di società. Quello religioso, in particolare, è fondamento della morale e del senso di comunità. Gli atti ad esso legati hanno una forza coercitiva e imperativa, si impongono, più o meno consapevolmente sull’individuo, che tende con una sorta di coazione a ripetere a compiere gesti o a tenere comportamenti a volte inutili ma allo stesso tempo necessari. Sono necessari a determinare le regole che dettano il convivere sociale e consentono di sorvegliare e reprimere le violazioni. La de-sacralizzazione delle società post moderne (società complesse direbbe Durkheim) annulla il valore della comunità a favore dell’individualismo delle coscienze. Un processo che il lockdown imposto dalla pandemia ha esasperato. Alla ritualizzazione del sacro e di tutto ciò che vi è connesso si è dato spazio solo al rito profano della società dell’intrattenimento. Discoteche sì, movida pure, turismo balneare idem. E lo dico da atea, anzi da agnostica, che per la prima volta, dopo anni, ha apprezzato una piazza spoglia. Ma – come più o meno disse Totò – per recuperare, in parte, il senso della comunità perduta, la servola, serve!
Valeria Gannone (Rubrica ALLEGRO MA NON TROPPO – Agenda – 28 agosto 2020)
La sacralità della scapece
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