Autore: L'angolo della cultura Rubriche

Italiani, ma che popolo siamo?

Ce ne hanno detto di tutti i colori. Che siamo «lazzaroni», amanti del vino e delle belle donne, portati per vocazione al parassitismo. Il bello è che è tutto sacrosantamente vero, ma … Intanto, sparata così, la cosa assume i toni del colpo basso, anche perché proviene dai Paesi Bassi e da un articolo pubblicato su una rivista dal nome impossibile. In passato era successo di peggio, con quella copertina del «Der Spiegel» del 1977 che inquadrava una pistola adagiata su un letto di spaghetti. Poi ne seguirono altre, sempre forti e di pessimo gusto. La verità è che ci invidiano, perché nonostante i nostri vizietti privati, la nostra indole spensierata e le gravi questioni morali che al nostro (mal)costume ben si attagliano (criminalità organizzata, corruzione, lobbismo, clientelismo), quando il gioco si fa duro diamo il meglio di noi. Perciò anche questa volta risorgeremo come l’araba fenicia dalle nostre ceneri, con uno scatto di orgoglio e di volontà, perché noi italiani abbiamo quasi una predisposizione genetica a ripartire dopo le tragedie. Che siamo «anche» un popolo di chianti, poeti e passeggiatori lo sapevamo da un pezzo. E sono stati illustri connazionali a dircelo, senza nemmeno che ce la prendessimo più di tanto.
«Fateli dire, fateli sfogare sti intellettuali … quelli che ne sanno della vita vera, quelli stanno sempre in mezzo ai libri!». Così avrebbe potuto esprimersi qualsiasi bottegaio del 1824, l’anno in cui «il giovane favoloso» pubblicava il «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani». Sentite cosa scrive, durissimo, il ventiseienne Leopardi: «In Italia manca una società stretta (noi diremmo «senso dello Stato») … Il clima che gl’inclina naturalmente a vivere gran parte del dì allo scoperto e quindi a passeggio e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri dello spettacolo e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia». Passano cinquantotto anni e, il 4 giugno 1882, in una cerimonia commemorativa in onore dell’appena defunto Peppino Garibaldi, il bardo nazionale professor Carducci si produce in un’orazione in cui infila queste parole dure come pietre: «A questa Nazione, giovine di ieri e vecchia di trenta secoli, manca del tutto la serena e non timida coscienza, l’idealità delle tradizioni patrie che sole affidano un popolo all’avvenire. Uomini e partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti di piccoli vantaggi: dove si baratta per genio l’abilità e per abilità qualche cosa di peggio, dove tromba dell’illegalità ed alfiere dell’autorità è la vergogna sgaiattolante tra articolo e articolo del codice penale».
Ed ora due brevi post scriptum: 1) Ma il contino Giacomo, oltre alle fatiche dell’animo, ne ha fatte altre in vita sua? 2) Carducci si rese conto della sua parabola involutiva che lo portò, da posizioni repubblicane e anticlericali, a diventare un fido cicisbeo di Margherita e poi un pacifico Senatore del Regno? Una volta ancora bisogna ammettere che aveva ragione il sulfureo Ennio Flaiano «Quella italiana non è una nazionalità, è una professione».
Gabriele D’Amelj Melodia

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