Ancora sul velo di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya e rientrata in Italia negli abiti tradizionali musulmani. Non ho espresso nessuna opinione a caldo, al momento del rilascio, semplicemente perché non conoscevo (e non conosco) tutto quello che riguarda Silvia, la sua prigionia, il trattamento ricevuto, l’operazione di intelligence dello Stato Italiano. Mi esprimo invece, sulla sua dichiarazione, rilasciata nei giorni scorsi alla rivista “la Luce”, portavoce della comunità islamica lombarda: per me il mio velo è un simbolo di libertà […] perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale, ha dichiarato. Bene, estrapoliamo questa frase dal contesto Silvia Romano e sostituiamo il soggetto della frase “il mio velo” con jeans, gonnellone, abito religioso. Non potrebbe diventare un manifesto del femminismo? Eppure proprio le donne hanno espresso sdegno per queste affermazioni: pensate al chador iraniano o al burka afgano e alle donne rivoluzionarie che hanno rischiato la vita pur di mostrarsi con la capigliatura al vento. Trascurando però il dettaglio non di poco conto, che non parliamo del simbolo in sé, che certo è espressione di sudditanza del maschile, di estremismo religioso, di annullamento della persona solo perché donna. Non è del simbolo dunque che parla Silvia, ma della libertà di portarlo (e nel caso di toglierselo). La stessa libertà delle donne del nostro Sud, che fino a pochi anni fa si coprivano il capo con un fazzoletto anche solo per uscire di casa. Della libertà delle suore, che lasciano in vista solo il volto. E pensiamo alla nostra libertà occidentale. Carica di teorici principi ugualitari e di reali contraddizioni.
Noi donne, siamo veramente libere di vestirci come vogliamo? Certo che sì, a patto che non ci succeda nulla. Se aggredite in strada verremo sottoposte al vaglio anche su ciò che avevamo indosso. Siamo libere di mostrare il corpo? Certo che sì, a patto che sia perfetto, levigato, e con gli attributi sessuali ben definiti. E se non lo fossero? Vai con botulino, silicone stiramenti e pompaggi. Siamo libere di disporre del nostro corpo? Certo che sì, a patto che non si decida di interrompere una gravidanza – evento che, piaccia o no, riguarda il corpo femminile – e a quel punto lo Stato, la Chiesa, la società tutta avranno diritto di parola. Silvia, in sostanza, ha rivendicato la libertà di vestirsi come meglio crede. Dal canto nostro, per carità, non avremo la prigione del burka, ma vi invito a trascorrere una giornata lavorativa su un tacco 12. Il “sacco” in cui era avvolta Silvia lo vedreste anche voi come una liberazione.