Capita spesso di guardare al passato con malinconia, di voltare lo sguardo all’indietro con un senso di conforto, di consolazione. Il sociologo polacco Zygmunt Bauman è riuscito a coniare un termine secondo me perfetto, qualche anno fa, parlando di «retrotopia», un’utopia rivolta all’indietro. Quella attitudine tutta occidentale dell’uomo moderno che, pessimista e insicuro nei confronti del futuro, si rifugia nel passato, immaginandolo in una versione rassicurante, serena, in cui la vita scorreva a ritmi migliori e tutti stavamo meglio, o almeno questo è ciò che preferiamo ricordare.
Ed è un fenomeno che a noi italiani capita spesso, un po’ perché abbiamo la memoria corta, un po’ perché mediamente incapaci di fare i conti con le nostre responsabilità di cittadini. Guardiamo con nostalgia al passato, dimenticando invece tanti momenti bui di quegli anni, i tantissimi periodi oscuri che la nostra giovane Repubblica ha vissuto, decennio dopo decennio. E non parlo ovviamente di grandi trame politiche, che probabilmente alla fine non toccavano nemmeno la nostra quotidianità, ma di avvenimenti che hanno coinvolto e cambiato per sempre le vite degli italiani. Delle tante vittime innocenti della violenza politica, delle stragi senza colpevole, della malavita.
In questi giorni di caldo feroce, ad esempio, mi è capito di passare da Bologna e tra un bicchiere e una chiacchierata di ricordare i tremendi giorni della strage, di cui tra meno di un mese ricorrerà il quarantennale. Era il due agosto del 1980, il primo sabato vero di vacanza, quando l’Italia staccava la spina per qualche settimana e si metteva in viaggio. All’epoca era soprattutto il treno a farla da padrone e Bologna rappresentava uno snodo centrale nell’Italia pre alta velocità. La deflagrazione delle 10.25 provocò ottantacinque morti.
Sempre a Bologna, in zona Bolognina, c’è un museo della memoria. È un po’ inusuale a dire il vero: un grande capannone con delle passerelle laterali, da cui poter osservare delle installazioni tematiche. Al centro vi è una enorme carcassa di un aereo, il DC-9 dell’Itavia, esploso in volo il 27 giugno 1980 e inabissatosi a 3.700 metri di profondità, nelle zone di Ustica.
Anche questo nome per noi rievoca il sangue di tanti innocenti, ottantuno persone che persero la vita in quello che, decenni dopo, appare sempre più come il risultato nefasto di una battaglia aerea tra grandi potenze mondiali. Anche per Ustica son passati quarant’anni esatti: quattro decenni di omertà, depistaggi, silenzi e strane fatalità.
L’estate del 1980 fu probabilmente la più drammatica e feroce della nostra storia repubblicana, violenta come le estati di mafia del 92′-93′ ma più ancor letale. Iniziò con la morte del giudice Mario Amato, trucidato dal terrorismo nero a Roma, e proseguì con le due più sanguinose stragi italiane, rimaste – come da triste tradizione nazionale – senza movente, senza colpevoli, senza mandante. Fu tuttavia la fine di un periodo infernale per il Paese: si usciva degli anni di piombo, dell’uccisione di Moro, dalle gambizzazioni in strada e iniziava il decennio degli ottanta, un decennio in cui l’Italia sembrò voler tornare semplicemente a vivere.
La storia, dunque, appare sempre così indecifrabile, discontinua, imprevedibile. Guardare sempre avanti, ma avendo buona memoria del passato, è tutto ciò che possiamo fare.
Andrea Lezzi (Rubrica BRINDISI VISTA DA ROMA – Agenda Brindisi 10 luglio 2020)
Immagine: fonte RSI Radiotelevisione Svizzera