Seduto su una panchina che dà sulla scalinata d’ascesa al Monumento al Marinaio, osservo intenerito una nidiata di bambini vocianti abbarbicata all’ancora di destra. Già, le ancore sono due, una a manca e una a dritta, ma, per un comune riflesso condizionato, quella presa di mira da generazioni di marmocchi è sempre stata la stessa. La storia di quei due monumentali oggetti marinari è alquanto dibattuta. Sistemate a lato della scalinata nel 1933, anno d’inaugurazione del Monumento, per un nostro storico locale erano appartenute alle corazzate gemelle austro-ungariche Tegetthoff e Viribus Unitis (una per nave), per altri storici militari, invece, erano corredo dell’incrociatore leggero austro-ungarico Saida (tesi più accreditata). Tutto questo però ai bimbi scalatori interessa poco … Chiudo gli occhi e vado con la memoria ai rudimentali sistemi di ancoraggio descritti da Eschilo (cesti pieni di sassi) o da Omero nell’Odissea (ancore di pietra), strumenti utilizzate per secoli anche da Vichinghi, Fenici, Egizi e Romani). Poi si progredì passando ad un fusto con un solo braccio di legno rinforzato da lastre di piombo, in seguito ai due bracci simmetrici in piombo e, più avanti, in bronzo e in ferro. Spesso erano pesantissime. La nave greca risalente al primo secolo a.C., denominata Mahdia, aveva un’ancora dal peso di ben 700 kg. Bisognerà aspettare molti secoli per giungere ad un attrezzo moderno. Il passo decisivo fu l’invenzione del ceppo mobile e, ancora di più, l’eliminazione del ceppo stesso (1823). I bracci (marre), forniti alle estremità di puntali (unghie), diventano mobili, e a volte scorrono lungo il fusto, detto anche fuso. Al vertice del fusto c’è un occhiello, detto cicala, attraverso il quale si fa scorrere la catena. La parte opposta dell’ancora, la base, porta il prezioso nome di «diamante». Tuttora, oltre alle ancore a vomere, a grappino e a cucchiaio, ci sono «ancòra» quelle a ceppo, le più efficienti (dette di tipo «Ammiragliato»). In attesa di incontrare un mio amico ex ufficiale di Marina che potrà chiarirmi molti dubbi, desisto dall’arenarmi nelle secche di un approfondimento tecnico non di mia competenza e viro verso acque a me più familiari. Quattro righe fa ho virgolettato il termine ancòra per sottolineare come questo lessema omografo, col solo ausilio di un accento grave, ora sulla «à» iniziale, ora sulla «ò» mediana, determini il significato della parola, che sdrucciola si riferisce al nostro attrezzo marinaro, piana all’avverbio di tempo. Nella scrittura corrente la parola «ancora» non si accenta, perché generalmente il contesto ne individua bene il significato, e quindi basta il solo accento fonico. Io però, ai giardinetti, ho sentito una mamma spazientita che richiamava l’ostinata figlioletta con una frase che non posso che trascrivere con gli accenti grafici: «Ancòra àncora! E mo’ basta!». W l’ancora, simbolo iconico di speranza, verità, fedeltà e sicurezza, immortalata su stemmi, insegne, medaglie e monete di tutto il mondo.
Gabriele d’Amelj Melodia (Rubrica CULTURA – Agenda Brindisi 11 giugno 2021)