«Impossible is nothing», come il claim di una delle campagne pubblicitarie più famose della storia. Sembra essere questo il mantra di una forza assoluta della natura: Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio, detta Bebe, ventiquattrenne atleta dal talento straordinario, a cui il nostro Paese deve essere profondamente grato. Per il messaggio che trasmette, per ciò che rappresenta per il mondo dello sport, per quella che semplicemente è: una donna straordinaria, che incarna appieno il significato della parola vita. Provate solo per un attimo a pensare cosa possa voler dire perdere i sogni e le speranze da bambini, quando a undici anni una meningite fulminante ti porta via braccia e gambe. E nonostante tutto non perdere la voglia di sperare, continuando a studiare e coltivare la grande passione per lo sport. Quella scherma che, anni dopo, sarà la spinta più forte per superare ostacoli e sofferenze, per cancellare le cicatrici e arrivare a calcare – vittoriosamente – i palcoscenici di tutte le più importanti competizioni mondiali.
È una vita da film quella di Bebe Vio, una di quelle pellicole dalla storia unica e imprevedibile. Capace di portarti sul podio per decine di volte (undici ori in competizioni internazionali) e farti crollare improvvisamente, dopo una diagnosi choc. Un accertamento che meno di quattro mesi fa la dava per spacciata: infezione gravissima da stafilococco e probabile morte nel giro di una settimana.
Centodiciannove giorni dopo eccola lì, invece, a fare un altro miracolo: medaglia d’oro nel fioretto individuale e l’ennesimo, incredibile, traguardo superato. «Ora capite perché ho pianto così tanto?», chiedeva a chi gli era attorno dopo il podio di Tokio. E in effetti viene da piangere solo a leggerla una storia così bella, figuriamoci a viverla, col quel coraggio e quella stessa determinazione.
Quella di una ragazza magica, per citare un brano di Jovanotti, che il suo libro – sempre sulle note del cantautore romano – l’ha chiamato «Mi hanno regalato un sogno», per sottolineare ancora una volta che sì, Bebe Vio si reputa davvero una ragazza fortunata.
Ed è questo l’aspetto più bello. Nella sua voglia di reagire non c’è mai posto per la lagna, il lassismo, la rassegnazione. Non c’è spazio, come ha ben sintetizzato Elena Stancanelli su La Repubblica, per cedere alla «osannata estetica della fragilità». Lei è l’emblema della resilienza felice, di chi si rialza senza collera ma con quella grinta, e quell’enorme sorriso, nei confronti di una vita che continua a regalare sorprese e soddisfazioni, nonostante enormi sacrifici. Quelle sofferenze, fisiche ed emotive, inimmaginabili per noi che spesso vediamo solo un volto di questa storia, quello di una ragazza allegra e vincente. Anche per questo Bebe Vio è un monumento alla positività, al coraggio, alla bellezza della vita.
L’intelligenza, l’ironia e la leggerezza, con cui parla di temi profondi, a cominciare da quello della disabilità, lascia sbalorditi. Come quando da Fazio ironizzò sul suo essere disabile, come un modo comodo per avere il cinema gratis, il parcheggio riservato o una mano nuova: «Quasi quasi la chiedo come quella della Regina Elisabetta», esclamò. Anche per questo, in un tempo in cui la parola contagio ha un suono nefasto, è bello pensare alla forza diffusiva del suo messaggio, così pieno di vita, così straordinariamente contagioso.
Andrea Lezzi