Autore: Allegro ma non troppo Rubriche

Cronaca di una città fantasma

Rubrica ALLEGRO MA NON TROPPO

Eppure lo immaginavo. Nelle parole sui social, nelle immagini che mi si presentavano, nei messaggini degli amici, negli articoli dei quotidiani locali o nelle interminabili videochiamate a due, di famiglia, di gruppo, che hanno condito i miei mesi in solitaria nella città di Torino. Lo immaginavo, che Lecce non era più il luogo dei miei pensieri, seppure l’ultima visita non fosse così in là nel tempo.
Ma chissà perché, la persistenza della memoria, come il titolo dell’opera surrealista di
Salvador Dalì, mi rimandava un’altra idea di città. La relatività del tempo trascorso, questa parentesi incantata e sospesa vissuta altrove, nei miei ricordi si opponeva, come nel quadro, alla rigidità cronometrica degli orologi.
Dopo aver vissuto due mesi in un limbo di esistenza, in una solitudine ontologica a cui sono avvezza nonostante il carattere portato alla socialità, immaginavo il rientro a casa in un ambiente diverso, sì, ma pensavo fosse solo il contesto ad essere cambiato. Invece, come nell’opera di Dalì ho trovato un’umanità oblunga e liquefatta, una narrazione medicalizzata degli affetti e delle amicizie, nello stesso scenario desolato del quadro. Una spersonalizzazione dei rapporti, nei quali si avverte che ogni parola, ogni gesto, ogni tentativo di vicinanza può non essere più rivolto ad un individuo, ma ad un potenziale veicolo di germi. Ho trovato volti familiari nascosti dalle mascherine, file di spettri viventi che attendono il loro turno al supermercato, saluti mancati, da lontano, una nuova gestualità di convenevoli, nuove regole di convivenza civile e nuove forme di riprovazione sociale. Condanne senza appello per chi rientra, reo di essere rimasto bloccato in un’altra zona d’Italia, di aver già fatto altrove la quarantena, anzi sessantena, colpevole di essere un ragazzo, magari uno studente che vuole sentirsi meno solo ed esistere per qualcuno che lo aspetta.
Ho trovato la delazione, sui comportamenti altrui, diventata quasi prassi, in atteggiamenti censori e di condanna. L’atomizzazione delle relazioni, il dominio della paura, la rigidità fuori misura delle forze dell’ordine ha portato il 4 maggio, non a un “libera tutti” come qualcuno paventava, ma a uscite, spesso disordinate ma fugaci. La libertà ora quasi terrorizza, ci ubriaca. Ognuno desideroso quanto prima di rientrare nel proprio guscio, nella propria ovattata zona di conforto. Siamo pronti ad assumere e a fare proprie regole assurde e crudeli, che ci impongono l’anestesia affettiva contro ogni razionalità. Abbiamo accettato, supinamente, senza minimi aneliti di rivolta, che i nostri cari, anziani, passassero il loro tempo, che non è il nostro o quello di un ventenne, in struggente solitudine, per preservarli…da che? Dalla morte? E’ una parola che assume diverse connotazioni a seconda di chi la pronuncia. Abbiamo consentito che se ne andassero soli, in anonimi letti di ospedale o in Rsa svuotate da ogni calore umano. Abbiamo rinunciato a salutarli degnamente per l’ultima volta e ad avere il conforto di persone care, anche se il decesso dipendeva da tutt’altro. Regole inutili e impietose in nome di un rischio che sarebbe governabile in mille modi, a cominciare
dall’utilizzo di adeguati sistemi di protezione, chissà perché introvabili. Ma ormai la parola d’ordine è salute o forse salvezza dal virus, concetto che assorbe tutti i nostri pensieri e regola la nostra esistenza. Una passeggiata, anche se con le dovute precauzioni, diventa un peccato capitale. E sarà così che, forse, un domani vivremo in un mondo salvato dal virus ma nel quale ci accorgeremo che l’umanità sarà morta.
Valeria Giannone

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