Che strazio atroce le immagini che arrivano dai territori di guerra, istantanee dell’orrore che immortalano i distacchi forzati delle famiglie e le manine insanguinate dei bambini coperte da qualche lenzuolo di fortuna. Sono le immagini di anziani portati in braccio lungo le scale mentre si fugge nei bunker e di città trasfigurate, un tempo animate dal trambusto di vita vissuta e oggi coperte da una coltre grigia di fumo e di morte. Scene che riportano alla mente quel testo sublime e straziante che solo un genio come Franco Battiato poteva riuscire a mettere in musica, in quella «povera patria» dove l’unico paesaggio urbano è rappresentato da corpi in terra senza più calore.
Dinanzi a queste immagini, alle notizie, ai suoni che ci arrivano in questi giorni dall’Ucraina non c’è persona con cui ci capita di parlare che non appare profondamente colpita. Si tratta di un turbamento, un senso di angoscia che personalmente vedo ancor più presente nei giovanissimi.
In questi giorni perfino l’Agcom ha scelto di appellarsi alle aziende Tv parlando della necessità «dopo i tragici mesi della pandemia, che hanno stravolto le esistenze di tutti», di «aiutare i giovani a conoscere, capire e interpretare la drammaticità della guerra». È un invito molto sentito che rende l’idea della situazione anche dal punto di vista dell’impatto sui più giovani. Proprio quei ragazzi spesso tacciati di essere indifferenti alla vita reale, di vivere in una bolla fatta di like e superficialità, persi tra l’ultima storia di Instagram e un video su Tik Tok oggi invece patiscono, comprendono e in parte reagiscono all’orrore del conflitto ucraino. I social, peraltro, paradossalmente in queste ore contribuiscono a diffondere i drammi di Kiev e ad accrescere la consapevolezza della situazione, provocando uno scompiglio emotivo a cui non eravamo abituati. Un malessere che forse molti di noi non pensavano nemmeno di provare perché, verosimilmente, nessun grande evento collettivo – oltre alla recente pandemia – aveva mai turbato così tanto le nostre vite.
Siamo la generazione cresciuta nella pace e – in parte – nella prosperità dell’Europa, in cui l’idea della guerra rappresenta un concetto arcaico, che riecheggia nei racconti dei nonni o nei vecchi documentari. Per chi non aveva vissuto da adulto il periodo drammatico della Guerra Fredda, o della tragedia di Chernobyl, l’ultimo grande shock geopolitico era rappresentato probabilmente dall’undici settembre 2001. Un evento, tuttavia, distante nel tempo e nello spazio per molti dei giovanissimi di oggi.
Eppure, ogni giorno nel mondo accade di tutto. Si calcola che solo nel 2021 fossero circa 27 le guerre diffuse nel globo, una cifra che arriva al migliaio e più se parliamo di piccoli conflitti. Nonostante ciò, raramente siamo emotivamente coinvolti da ciò che accade oltre le nostre quattro mura. Quante volte ci capita di pranzare e chiacchierare mentre al Tg scorrono immagini di terrore, in cui una barca di migranti affonda o un’autobomba esplode in qualche Paese lontano dal nostro? Questa assuefazione alla violenza personalmente mi colpisce profondamente e mi provoca un senso di colpa che chiamerei «del benessere». Niente sembra toccarci, perché le guerre nel mondo – a torto – ci paiono sempre così lontane e ininfluenti sulle nostre vite. Salvo poi scoprire che possono diventare incredibilmente vicine e alterare, d’improvviso, tutte le priorità della nostra piccola esistenza.
Come poter leggere altrimenti le immagini di una madre incinta che – ferita gravemente – viene portata via di corsa mentre l’ospedale pediatrico soccombe sotto i bombardamenti? Si tratta di qualcosa più grande di tutto il resto, di inimmaginabile per noi cresciuti al caldo e per troppi anni assorbiti da quell’inconsapevole cinismo di chi è sempre stato bene, di chi ha vissuto – per fortuna e non per merito – nella parte più tranquilla della terra.
Mentre tutto attorno è in bilico da troppi anni, noi giovani europei abbiam passeggiato nella comodità di un continente «giardino del mondo», in cui tutto è ovattato, protetto, garantito. La guerra in casa di questi giorni, invece, ci porta per la prima volta a interrogarci sull’orrore e le disparità di questi tempi. Ed è emblematico che i primi a cogliere questi segnali siano proprio i più giovani.
Attenzione non si tratta di fare moralismo, al contrario credo che la forte consapevolezza di noi giovani possa rappresentare un aspetto importante anche per il futuro. Mentre, guardando al presente, con una guerra alle porte la più grande risposta che possiamo dare è quella di impegnarci concretamente sugli aiuti e il supporto alle popolazioni in difficoltà. Arriveranno anche tanti profughi in fuga e dovremo farci trovare pronti.
Andrea Lezzi (Agenda Brindisi – 11 marzo 2022)
Brindisi vista da Roma / Noi giovani occidentali e l’angoscia della guerra
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