Per l’amarcord della settimana abbiamo contattato il brindisino vice campione del mondo Antonio Benarrivo, che con grande disponibilità ha accettato di rispondere alle nostre domande. In verità, quando ti trovi di fronte un mostro sacro, un campione, che ha tanto vinto e che ha rappresentato in modo prestigioso la nostra città ai mondiali del 1994, disputatisi negli Stati Uniti, le domande da fare sono tante. Prima di iniziare la solita intervista, nel corso della quale abitualmente ripercorriamo l’excursus calcistico dell’intervistato, l’ex Parma ci teneva tantissimo a fare passare un messaggio, indirizzato particolarmente ai tanti genitori, che portando i propri figli alle scuole calcio, si aspettano che un giorno diventino dei campioni e che faranno parte di club di serie A. Visto l’importante argomento, sosteniamo volentieri il campione e lo seguiamo nel suo interessante discorso.
A cosa portano queste speranze?
Tutto questo può portare a facili illusioni ed a grandi delusioni, che non fanno altro che fare del male alle speranze di un ragazzo.
Quali sono gli errori in cui cadono i genitori?
Spesso capita di vedere nelle partite dei ragazzi alcuni genitori che, incuranti della presenza di un allenatore, danno indicazioni ai propri figli dalle tribune: sbagliatissimo, non serve!
Cosa serve per emergere nel mondo del calcio?
Non basta che un ragazzo sia un bravo calciatore e abbia talento. Per emergere, non solo nel calcio ma nella vita in genere, c’è bisogno che con la bravura si incastrino alcuni eventi fortunati, come i tasselli di un puzzle.
Quale messaggio vorrebbe dare a questa «categoria» di genitori?
Devono capire che non è facile diventare calciatori, indipendentemente dal talento e dalla bravura del ragazzo. Da una statistica di qualche anno fa, solo un ragazzo su 70mila riesce a passare dal settore giovanile al professionismo. Per questo motivo, quando anni fa ho appeso le scarpette al chiodo, ho provato ad aprire una scuola calcio a Brindisi dove i ragazzi, oltre ad allenarsi e a giocare, non avrebbero dovuto perdere mai di vista lo studio.
Interessante. Cosa le ha impedito di realizzarlo?
Volevo fare le cose fatte bene, ma non mi è stata data la possibilità. Le zone ‘F’ erano tutte bloccate, quindi non ho potuto realizzare il mio progetto per un piano regolatore fermo dal 1969.
Precisamente il suo progetto in cosa consisteva?
Volevo realizzare una struttura dove ospitare a tempo pieno i ragazzi, farli allenare, ma anche studiare. Avrei voluto raccontare il mio vissuto, per fare capire come è difficile arrivare. Certamente non avrei voluto rovinare i loro sogni, ma farli stare con i piedi per terra, senza mai dimenticare la realtà.
Ci spieghi. Come è possibile che un ragazzo di una città di provincia, lontana dal giro delle squadre di A e B, sia riuscito ad emergere?
Immaginate i tanti tasselli di un puzzle, mischiati su un tavolo della ‘vita’, dove siano raffigurati tanti allenatori, direttori sportivi, presidenti, squadre di calcio, città, nazionale, calciatori, infortuni, bugie, ruoli, intuizioni, occasioni, goal. Bene, per emergere nel mondo del calcio – ma questo vale anche nella vita di tutti i giorni – si devono incastrare, nell’ordine giusto, nel momento giusto, tutti i tasselli. Solo allora puoi sperare di farcela. Il mio percorso è stato lungo e tortuoso ma gradualmente, come un puzzle, con talento, bravura, qualche bugia buona e un po’ di fortuna, tutti i tasselli sono andati al loro posto».
Quindi la sua vita calcistica è stato un puzzle, con tanti tasselli che sono andati ognuno al proprio posto?
Esattamente! La mia vita calcistica è stata un insieme di tasselli incastratisi nel modo giusto, al momento giusto.
Proseguendo l’intervista al vice campione del mondo Antonio Benarrivo, scopriamo attraverso le sue risposte i tasselli del suo personale puzzle, che lo hanno portato ai meritati successi ottenuti nella sua vita calcistica.
Dove ha tirato i primi calci ad un pallone?
Nel piccolo piazzale antistante la chiesa di San Benedetto, improvvisato a campetto di calcio. Praticamente è la strada che mi ha formato.
Qual è il primo tassello del suo puzzle calcistico?
Mi vide giocare Rino Turco, un uomo di sport, che adesso non c’è più, che si è sempre dedicato al settore giovanile e che faceva parte di una società di calcio, ossia la polisportiva Santa Chiara. Parlò con mio padre sollecitandolo a farmi passare a quella società, il cui allenatore era mister Milocco. Il campo di allenamento era ubicato dove attualmente c’è il convento.
Qual è stato il passaggio successivo?
Mi notarono alcuni dirigenti del Casale Sport e mi vollero con loro. Lì trovai come allenatore Salvatore Rizzo. A quei tempi giocavo nel ruolo di ala, fu mister Roberto Prudentino, che notò che avevo una buona corsa e che ero molto caparbio. Mi disse che viste le mie caratteristiche, partendo dalla difesa, si potevano sfruttare meglio le mie qualità. Aggiunse che avrei difeso anche bene. Fu lui a scoprirmi difensore fluidificante.
Continuiamo a sistemare i tasselli della sua vita calcistica. Cosa accadde dopo?
Dopo un anno di permanenza al Casale Sport, grazie a Tonino Carriero passai alla Gioventù Brindisi, all’epoca seconda società di calcio della città, dove tra gli altri, venni seguito da mister Enrico Bastiani.
Non sbaglio se affermo che questa parte della sua vita calcistica l’ha vissuta attraverso le scelte altrui?
Non sbaglia e non finisce qui. L’anno dopo ci fu la fusione tra Gioventù Brindisi e Brindisi Calcio e mi ritrovai, insieme a tanti altri ragazzi, a fare parte delle giovanili della prima squadra di calcio della città.
Sempre per rafforzare il discorso che per farcela si devono incastrare una serie di eventi favorevoli, nel corso della sua vita calcistica ha conosciuto talenti che non hanno avuto l’occasione per emergere, oppure non sono stati bravi a cavalcarla, a sfruttarla, a cogliere l’attimo?
Nel gruppo di cui facevo parte, c’erano tanti giovani calciatori forti. Per esempio ricordo Massimo Gigliola, che era un centrocampista con i piedi fatati. Aveva dei piedi fantastici (si è perso). Ma anche Francesco Taveri, Roberto De Vitis (grandissimo centrocampista, anche lui dai piedi buoni buonissimi), anche lui un talento inespresso. Per non parlare di Vincenzo Gagliano ed Eupremio Carruezzo. Comunque, ne ho conosciuti tanti. Questo per farle capire che, anche se sei bravo, non è sufficiente, non è matematico, non è che due più due fa quattro. Non è così. Ci sono parecchie situazioni da sfruttare. Occasioni che ti devono capitare e devi essere pronto e bravo a sfruttarle. Diversamente, purtroppo, rimani un talento inespresso. Nella mia vita, mi riconosco il grande merito di aver cavalcato le occasioni che mi sono capitate. Ognuno le chiami come vuole, io le chiamo coincidenze, che però devi sfruttare.
Ha da raccontare un aneddoto per evidenziare come si possa incastrare un tassello?
Sì. Deve sapere che calcisticamente nasco destro. Prima di partire per il ritiro con il Brindisi Calcio, partecipai ad un torneo estivo che si disputava sul campetto di calcio della spiaggia di Sant’Anna. In quell’occasione ebbi una distorsione alla caviglia destra. Di conseguenza, quando partii per il ritiro con il Brindisi, avevo dolore all’articolazione del piede. Da quel momento, per non sforzare il piede dolorante, ho cominciato ad allenarmi e ad utilizzare sempre più il piede sinistro. Strada facendo, sono sempre migliorato. Da notare che questo fatto ha influito per il resto della mia carriera, non solo per aver imparato ad utilizzare sempre più il sinistro, ma anche perché se la distorsione fosse stata più invasiva, tutto si sarebbe fermato a quel giorno e addio calcio.
E’ andata bene. Quindi faceva parte delle giovanili del Brindisi. In che campionato giocava?
Giocavo nella Berretti, campionato regionale.
Quali erano le sue caratteristiche?
Le mie caratteristiche erano quelle tipiche di un terzino moderno, che tutti vorrebbero. Il terzino è colui che partecipa alle tre fasi di gioco. Difesa, centrocampo e attacco. Praticamente fare l’uomo in più nei tre reparti. Il famoso fluidificante. Mister Prudentino vide bene perché, tra l’altro, ero bravissimo ad anticipare chi partiva. Quindi anticipavo e ripartivo (e lo diceva pure Sacchi). E’ l’unica arma con cui prendi in contropiede l’avversario. Hai più possibilità di fare male all’avversario. Quindi avevo queste caratteristiche di velocità, palla lunga e pedalare, fare veloci uno-due per poi fare un cross o arrivare in porta.
Come ha supplito all’altezza, visto che i difensori dovrebbero avere una stazza alta e robusta?
Sì, per fare il difensore si dovrebbe essere alto e forte fisicamente , ma il fisico è relativo se non hai altre cose. Non ero alto, però «prendevo» il pallone di testa ai famosi Casiraghi e Ravanelli. E’ fondamentale la scelta di tempo. Non è una cosa che hanno tutti, è una cosa innata. Avevo una grande elevazione, che mi sono e mi hanno sempre riconosciuto. Prendevo il pallone nella parte più alta della sua caduta.
Mentre faceva parte delle giovanili del Brindisi cosa accadde?
Altro tassello. Durante il mio percorso nelle giovanili del Brindisi, il presidente era Biagio Pascali e, non avendo più risorse economiche, decise di affidarsi al settore giovanile, più tre over, Borsani, Ciraci e Zaccaro. Partecipammo al campionato di C1 con la juniores, di cui facevo parte con i tre over. All’inizio l’allenatore era Giuseppe (Pippi) Leo, in seguito la squadra venne affidata ad Ansaloni, il quale gradualmente mi diede sempre più spazio.
Ricorda il suo debutto in prima squadra?
Il mio esordio è stato a Caserta. Quando giochi al calcio, speri che prima o dopo accada. E’ il desiderio di tutti i giovani. Indipendentemente dalla categoria è bello in ogni caso esserci. Da brindisino, esordire con la maglia della tua città è molto bello e dà un sacco di emozioni.
Come finì quell’anno? Come si classificò quel Brindisi?
Quell’anno ci salvammo all’ultima giornata in casa, pareggiando (0-0) con la Reggina. Lo stadio era stracolmo con un’atmosfera surreale. Fu una partita indescrivibile, una continua melina delle due squadre … che avevano entrambe bisogno di un punto per raggiungere i propri obiettivi.
L’anno dopo giocava titolare. Quell’anno avete sfiorato la promozione in serie B. Cos’è mancato a quella squadra per farcela?
Il presidente era Mimmo Fanuzzi. Mise insieme una squadra fatta di bravi calciatori. Facemmo un campionato quasi sempre da primi posti in classifica. La partita più importante la giocammo a Francavilla a Mare, con al seguito migliaia di tifosi. Quella partita pareggiata (0-0) bisognava vincerla. Durante la gara ci arrivò una notizia errata, e cioè che l’altra nostra concorrente per la promozione stava perdendo e che il pareggio sarebbe stato sufficiente. In realtà quel pareggio non ci bastò. Comunque in quell’occasione giocammo male. Non all’altezza. Quel pareggio sancì la nostra esclusione dalla B.
Mentre a quel Brindisi i tasselli non andarono al loro posto, a lei invece cosa accadde?
Dopo il terzo campionato di serie C1 a Brindisi, con diverse convocazioni nella nazionale under 21 di categoria, entri in un’altra ottica. Oramai ero entrato in un certo giro. Anche in quelle occasioni ci vogliono le congiunture. Si interessò a me il direttore sportivo Piero Aggradi, scopritore di talenti quali Del Piero, Albertini e Di Livio il quale, quell’anno, avrebbe dovuto lavorare per il Perugia e voleva portare anche me. Il Perugia giocava in C1, quindi per me sarebbe cambiato poco.
Cosa Accade?
Accadde che Aggradi non trovò l’accordo con il Perugia e si trasferì a Padova in serie B e mi portò con lui.
Ha sofferto stare lontano da casa?
Molto. All’inizio lo stacco è stato micidiale. Lo stacco dagli affetti famigliari, dagli amici, dalla città, è stato devastante.
Com’è stata l’esperienza calcistica vissuta a Padova?
Mi trasferii a Padova dove c’era una squadra già completamente fatta, quindi io ero il terrone della situazione che arrivava da Brindisi. Nonostante mi allenassi con grande impegno, venivo sempre messo in disparte dall’allora allenatore Ferrari. Nelle amichevoli facevo la mia partitina e finiva la. Perché le cose cambiassero, ci sarebbe stato bisogno di un evento straordinario. Cosa che accadde. In quella rosa, l’unico terzino sinistro ero io. Prima che arrivassi a Padova, mister Ferrari aveva segnalato e fatto richiesta alla società, di prendere il centrocampista Piacentini, che arrivò in prestito dalla Roma. Quindi, dovendo giustificare l’acquisto, lo faceva giocare fuori ruolo, come terzino sinistro.
Cosa accadde? Com’è riuscito ad emergere?
C’è stato bisogno che un altro tassello andasse al posto giusto. Si fecero male contemporaneamente due centrocampisti. Alle 13,30 del giorno dopo c’era la partita Padova-Cosenza. Mister Ferrari decide di spostare Piacentini nel suo ruolo originale, poi venne da me e mi chiese se me la sentivo di giocare. Gli risposi esattamente in questo modo e con queste parole: «Prego? Me la sento di giocare? ‘mo ti mangio pure a te». Fu la mia occasione che finì con una prestazione eccellente, con la nostra vittoria (3-1), e con il terzo goal segnato da me. Da quel giorno entrai nelle grazie dei tifosi, dei giornalisti e della società. Solo in quell’occasione mister Ferrari capì che l’unico terzino della rosa ero io. Da allora utilizzò Piacentini nel suo ruolo a centrocampo e me in difesa a sinistra.
Quale risultato avete raggiunto quell’anno?
Quell’anno ci salvammo alla grande (quello era il progetto). L’anno dopo per un punto non andammo in serie A. Nel Padova ho giocato due anni e ho realizzato 7 goal, quattro il primo anno e tre il secondo.
L’anno dopo è passato al Parma in serie A, com’è andata? Come si è trovato lì?
Dopo due ottimi campionati a Padova, si interessò a me il Parma. Nonostante il passaggio da una squadra di serie B ad una di serie A, il trasferimento non l’ho vissuto con grande entusiasmo, le spiego perché. Quando arrivai a Parma da terzino sinistro e nel contesto di squadra mi trovai nello stesso ruolo Alberto Di Chiara, che stava vivendo il suo migliore periodo calcistico, pensai : «Quest’anno non gioco. Mi faranno fare qualche partita in coppa Italia e mi daranno qualche contentino». Non avevo molte speranze. L’allora allenatore Nevio Scala mi metteva sempre come partner di Alberto Di Chiara. Era un’ala adattata a terzino. Piedi buoni, gamba buona, bravo al tiro. Era impossibile togliergli il posto. Anche in questa occasione avevo bisogno che si incastrasse un altro tassello nel mio puzzle. Quindi dovevo inventarmi qualcosa. Decisi di andare da mister Scala e visto che lui giocava con un 3-5-2, gli dissi: «Mister, se lei dovesse avere bisogno, io sia a Brindisi che a Padova, quando veniva a mancare il terzino destro, venivo utilizzato a destra». Era una bugia. Una bugia a fin di bene. Da quel momento, limitatamente alla Serie A, sono stato il giocatore del Parma che, tra il 1991 e il 2004, ha giocato il maggiore numero di partite accumulando 258 presenze, realizzando anche 5 reti.
Ricorda il primo incontro con i suoi nuovi compagni?
Non avevo più questo timore reverenziale, in quanto oramai mi sentivo uno di loro. Diventa la norma. Avevo fatto una salita graduale e costante.
Ha fatto parte di una squadra che ha vinto molto. Ricordiamo cosa …
Sì, ho fatto parte di una squadra incredibile, che in 12 anni ha vinto tantissimo. Non credo che al mondo esista una cosidetta provinciale, come il Parma, che possa vantarsi di aver vinto contemporaneamente tanto, sia nella propria nazione che in campo internazionale. Già al mio primo anno (1991/92) vincemmo la Coppa Italia battendo (2-0) in finale la Juventus. L’anno dopo il primo trofeo europeo, la Coppa delle Coppe, vincendo in finale per 3-1 contro l’Anversa a Wembley. Grazie a quella storica vittoria giocammo e vincemmo (2-0) la Supercoppa Europea, a San Siro, contro il Milan di Capello (allora si disputava tra la vincente della Champions League e la vincente della Coppa delle Coppe). La stagione successiva vincemmo la Coppa Uefa, superando (1-0 / 1-1) in doppia finale la Juventus. Nel 1999, con l’arrivo di Alberto Malesani in panchina, ci aggiudicammo un’altra Coppa UEFA battendo (3-0) in finale l’Olympique Marsiglia e la Coppa Italia, superando nel doppio confronto (1-1 / 2-2) la Fiorentina, grazie alle maggiori reti realizzate in trasferta. La stagione 1999-2000 si aprì con la vittoria (2-1) in Supercoppa Italiana contro il Milan a San Siro. Le due stagioni successive sono caratterizzate da un’alternanza continua di allenatori: Malesani per Sacchi, Renzo Ulivieri, Daniel Passarella e infine il «traghettatore» Pietro Carmignani. Con lui il Parma vinse la sua terza Coppa Italia, superando la Juventus in finale (a Torino sconfitta 1-2 e a Parma vittoria 1-0).
Mentre vinceva tanto con il Parma, nel 1993 ha avuto la sua prima convocazione in Nazionale. Se l’aspettava?
Attraversavo un periodo di forma smagliante. Con il Parma avevo vinto prima la Coppa Italia, poi la Coppa delle Coppe a maggio. A settembre arrivò la convocazione. Sinceramente, quando vinci tanto in Italia e in campo internazionale, niente può più sorprenderti. Oramai quasi tutti i miei tasselli erano andati al loro posto. Però per esserci arrivato, non bisogna dimenticare come. Per esempio, se con mister Scala non mi fossi proposto terzino destro, oltre a non trovare spazio con il Parma, non avrei mai potuto togliere il posto in nazionale a un mostro sacro (calcisticamente parlando) come Paolo Maldini, in una nazionale allenata da Sacchi ex del Milan. Io, nato con il ruolo di ala, trasformato in terzino fluidificante di sinistra, ho vinto tantissimo, giocando come terzino a destra, grazie ad una bugia, detta a fin di bene. Il debutto in nazionale l’ho fatto a Tallin contro l’Estonia, dove vincemmo (3-0). Era un turno di qualificazione ai mondiali degli Stati Uniti. Poi a seguire, tra qualificazioni e amichevoli, ho giocato contro Scozia, Portogallo, Francia, Germania, Finlandia, Svizzera e Costa Rica, qualificandoci per i mondiali.
Cosa ricorda di quel mondiale?
Tutto! E’ stata un’esperienza incredibilmente bella. Ti ritrovi dentro un sogno che si realizza. Pur di giocare, avrei fatto anche il portiere. Chiaramente, essendo arrivato da titolare mi aspettavo altro.
Cosa accade?
Per la prima partita dei mondiali contro l’Irlanda, mister Sacchi decide di fare giocare la difesa del Milan: Maldini, Costacurta Baresi e Tassotti (che prende il mio posto). Se con quella difesa fosse andato tutto bene, molto probabilmente in quel mondiale non avrei più giocato. Perché quest’altro tassello andasse al suo posto, doveva accadere qualcosa di straordinario. L’Italia, da favorita, perse (1-0). Sacchi ritorna sui suoi passi e qualche giorno dopo mi fa debuttare al posto di Tassotti contro la Norvegia. Faceva tanto caldo, ma preso dall’entusiasmo, dall’agonismo e dalla voglia di fare bene non l’ho sentito. Vincemmo 1-0. La successiva la pareggiammo (1-1) con il Messico e con 4 punti, grazie alla classifica avulsa, passammo il turno. Agli ottavi di finale, contro la Nigeria fu una partita tutta in salita. Perdevamo 1 a 0 quando Roberto Baggio, a due minuti dalla fine, pareggiò l’incontro. Ai tempi supplementari, un tassello del mio personalissimo puzzle andò ad influenzare positivamente il percorso dell’Italia in quel mondiale. Fui atterrato in area di rigore e l’arbitro fischiò un penalty a nostro favore che Roberto Baggio trasformò. Con quella vittoria (2-1) passammo il turno. Ai quarti di finale ci toccò la Spagna: vincemmo (2- 1) e ci qualificammo per la semifinale con la Bulgaria. Grazie a Baggio e alla sua doppietta, superammo anche la Bulgaria e andammo in finale col Brasile. Il sogno di una vita era ad un passo. La partita fu abbastanza equilibrata, anche se le migliori occasioni sono state a loro appannaggio. Sia i tempi regolamentari che i supplementari finirono a reti inviolate. Si andò alla lotteria dei rigori. In quell’occasione, purtroppo, tre tasselli, che non facevano parte del mio puzzle, non si incastrarono a dovere. Massaro, Baresi e Baggio fallirono i rigori e il sogno di diventare campione del mondo svanì.
Quando venne convocato in nazionale, si rendeva conto che rappresentava anche Brindisi?
Era una cosa grandissima che mi caricava di adrenalina come neanche immagina.
In quel periodo era diventato famoso, come la viveva questa notorietà?
Ovunque andassi, mi conoscevano. Ho avuto tantissime manifestazioni d’affetto. E’ stato molto bello. In verità, le manifestazioni d’affetto continuo a riceverle ancora oggi.
Credo però che, giunto a quel punto, di strada ne aveva fatta. Dal campetto della chiesa, arrivare ad una finale mondiale, con tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare e superare. Il puzzle era completo, o no?
Certamente. Il percorso che abbiamo ricordato deve servire come messaggio. Non c’è spazio per le illusioni. Si può fare, ma gli ostacoli da affrontare sono tantissimi e non bisogna arrendersi.
Alla resa dei conti, il suo curriculum sportivo è molto importante.
Dieri di sì. Tre coppe Italia, una Supercoppa italiana, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea e due Coppe Uefa … non è da tutti. Se a questo aggiungiamo una finale mondiale, una finale di Coppa delle Coppe, una semifinale di Coppa Uefa, un paio di partecipazioni alla Champions League e un paio di scudetti persi per pochi punti il quadro è completo.
In serie A ha realizzato cinque reti, quale ricorda con maggiore soddisfazione?
Sì, ne ho realizzati anche di belli. Ne ricordo uno che è servito a salvare la panchina ad Ancelotti. Lo realizzai all’85’, pareggiammo (1-1) a Vicenza. La società gli aveva detto apertamente che se avesse perso quella partita sarebbe stato esonerato. Con quel goal credo di avergli salvato la panchina e poi la carriera. Quell’anno da quart’ultimi, nei primi di dicembre, arrivammo secondi a due punti dal primo posto e dal vincere lo scudetto, poi vinto dalla Juventus. Da quella partita in poi il Parma non si è mai più fermato. Vinse spesso, con qualche pareggio. Facemmo una risalita incredibile. Infatti da lì in poi, Ancelotti si è consacrato allenatore mondiale.
Com’è stato il suo rapporto con i tanti allenatori con cui ha lavorato?
Da ognuno di loro ho attinto qualcosa, che mi ha aiutato a crescere.
E’ stato mai espulso?
Ho preso un’espulsione per doppia ammonizione. Nonostante il mio carattere «fumantino», in campo sono stato sempre molto corretto. Ho sempre rispettato gli avversari. In quelle occasioni riuscivo a rispettare le regole. Sono una persona molto impulsiva, che non riesce a contare fina a dieci. Però ero consapevole del mio ruolo e sapevo come comportarmi.
Si parlò di un passaggio alla Juventus, com’è andata e perché non è successo?
Dopo il mondiale mi volle la Juventus. Andai a colloquio con il presidente Tanzi. Mi disse che voleva vincere e se si fosse privato di me, che considerava uno dei migliori, non avrebbe vinto. In quell’occasione, avrei potuto puntare i piedi per passare alla Juventus, ma non me la sono sentita per una questione di riconoscenza e correttezza. Mi alzai e a fine colloquio gli dissi: «Mi metto nelle sue mani». Mi parlò di un futuro contratto dirigenziale in gialloblù. Poi avvenne il crac Parmalat, con la bancarotta, e i vari accordi andarono a farsi benedire.
Chi la chiamò della Juve?
Ci fu l’incontro tra Moggi, che era il direttore generale, e il mio procuratore Fedele.
Si è mai pentito?
Per come poi sono andate le cose, con il crac Parmalat, l’amministrazione controllata, il fallimento e tutto ciò che è successo, la mia riconoscenza non è servita a niente.
Quando ha deciso di appendere le scarpette al fatidico chiodo? E’ stata una decisione sofferta?
Ho deciso di ritirarmi a 36 anni. Mi facevano spesso male i polpacci. Ho capito che era arrivata l’ora di smettere, che poi è stato in concomitanza con il crac Parmalat nel 2004.
E’ rimasto nel mondo del calcio?
Ho fatto il corso master di allenatori professionisti di Prima Categoria-Uefa Pro di Converciano, insieme ad altri illustri ex compagni come Pippo Inzaghi, Fabio Grosso, Hernan Crespo, Marco Materazzi e Fabio Cannavaro, ma non ho mai avuto la testa per fare l’allenatore. La testa era ed è impegnata a fare altro.
A cosa si sta dedicando?
Oggi faccio l’imprenditore nel settore edile. Sto lavorando a Brindisi, ma anche in altre città d’Italia. E’ un lavoro che mi impegna molto mentalmente. Fare due cose non mi va. Per come sono fatto io, ne devo fare una e bene. Non mi va di portare i miei pensieri nello spogliatoio. Il mattone mi ha sempre attratto, pensi che già a 18 anni ho comprato una casa, mettendo da parte i soldi che guadagnavo al Brindisi. Mi impegnai facendo delle cambiali per la mia casetta.
Con l’emergenza Covid-19 in piena pandemia, com’è riuscito a trovare lo spazio per lavorare?
Infatti non è un bel periodo. Calcisticamente parlando, in questo periodo stiamo giocando in difesa.
Se non erro, con Mino Francioso, aveva vinto una gara per la gestione degli ex campi Acsi. Cosa è successo?
Vincemmo quell’appalto ma, non fu portato avanti in quanto sul bando di gara, non c’erano scritte tutte le cose che non erano conformi alla realtà. Non valeva la spesa per l’impresa. Quando facemmo il sopralluogo, trovammo tutto distrutto. C’era incongruenza tra la concessione, che avremmo potuto gestire per un certo periodo di anni, e le spese da fare.
Che rapporto ha con la sua città e i brindisini?
Un ottimo rapporto, non ho problemi con nessuno, sono amico di tutti, parlo con tutti, sono un uomo che proviene dalla strada, quella che mi ha formato.
Ha notato invidia nei suoi confronti?
Sì, la trovi ovunque. Bisogna capire il vissuto della gente che sta dall’altra parte. Stando dall’altra parte, credo che anch’io un po’ la proverei.
A Brindisi è ben voluto da tutti e spesso, quando si parla di calcio, da lei – che ce l’ha fatta – i tifosi si aspettano una collaborazione, un aiuto per fare riemergere la squadra della città. Ci pensa? Lo farebbe? A quali condizioni?
Brindisi è una città industriale, dove tante aziende si arricchiscono, ma al territorio non danno niente. Bisognerebbe individuare quelle grosse aziende che hanno utili da investire nel pallone. Ci vorrebbe un grosso gruppo. A quel punto, con la certezza di grandi risorse economiche, si potrebbe lavorare per un progetto ambizioso e continuativo. Gli altri tasselli andrebbero automaticamente a loro posto. Solo in quel caso ci metterei la faccia. Non si può pensare di aspettare a vedere quanto raccogliamo di sponsor per poi formare la squadra. Non funziona così. Perché a Parma, dopo il fallimento, in poco tempo sono ritornati in serie A? Andate a vedere quali aziende sono vicine alla società. Queste aziende contribuiscono economicamente, pubblicizzano il proprio marchio, hanno un ritorno pubblicitario e scaricano le tasse. A Brindisi è possibile che non si riesca a mettere insieme tre grosse aziende capaci di dare una mano al calcio?
Il suo ruolo quale potrebbe essere?
Dipenderebbe dal progetto. Potrei fare il direttore generale, l’allenatore, l’importante che ci sia un progetto serio.
Vista la sua nota immagine, la vedrei come presidente onorario.
Anche. Ma credo che mai nessuno abbia proposto qualcosa del genere a queste grosse aziende. Quindi?
Intervista a cura di Sergio Pizzi