Tra polemiche e contrapposizioni politiche, tiene «banco» la vicenda dell’evento espositivo allestito nella Sala della Colonna di Palazzo Nervegna: «Fiera del Disco» o banale e deprecabile mercatino (vedi foto di copertina)? Abbiamo chiesto al professor Teodoro De Giorgio, storico dell’arte medievale, di commentare l’accaduto. (intervento pubblicato sul nostro settimanale Agenda Brindisi).
Discoteca, friggitoria, cocktail room, sala rinfreschi e oggi anche bazar. Al ricco campionario degli usi impropri ai quali è stata adibita, nel corso degli anni, la Sala della Colonna si aggiunge l’iniziativa del 6 e 7 gennaio scorsi, intitolata Fiera del disco e patrocinata dal Comune di Brindisi. Una iniziativa che, nell’intento benemerito di promuovere la cultura del vinile in una società sempre più dipendente dallo streaming, ha deliberatamente trasformato la Sala della Colonna in una rivendita di bigiotteria, gadget, magliette e, altresì, di dischi.
Perché è doveroso indignarsi? Perché quella Sala conserva il principale simbolo identitario del popolo brindisino: il monumentale capitello dell’unica colonna romana superstite, testimone del glorioso passato della nostra città, il cui porto era il migliore del mondo antico e, per questo, celebrato da poeti, naviganti, imperatori, pellegrini e santi. Questo glorioso passato si riflette, ancora oggi, nello stemma civico, che racchiude al suo interno le due colonne, per tradizione considerate il termine della via Appia, la «Regina Viarum» come veniva soprannominata (la cui inclusione nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità è stata, in tempi recenti, proposta dal Ministero della Cultura).
Non sono molti i Comuni italiani a potersi fregiare di avere nel proprio stemma l’immagine di un monumento appartenente al proprio passato e, per giunta, ancora esistente. Anzi, a dire il vero, sono pochissimi.
Nel 2007, per rendere ancora più stretto il legame tra il monumento e la città, e soprattutto tra il simbolo civico e l’Amministrazione comunale, il capitello, al termine di un lungo e laborioso restauro, è stato trasferito in via definitiva nel complesso architettonico di Palazzo Granafei-Nervegna, sede di rappresentanza del Comune per volontà dell’allora sindaco Domenico Mennitti. La Sala della Colonna al piano terra, che occupa gli ambienti del palazzo dell’ex Corte d’Assise, è diventata il fulcro dell’intero complesso. Un luogo dalla sacralità tutta laica, dove aleggia lo spirito dell’antichissima città di Brindisi. Un luogo, per sua espressa natura e vocazione, deputato a fungere da attrattore culturale e da fucina di una cittadinanza attiva basata sulla consapevolezza della propria memoria storica.
Ma cosa resta di questa memoria? Se dovessimo giudicarlo da quanto accaduto nei giorni scorsi, la risposta sarebbe inesorabile. Eppure, quel monumento tanto pregno di storia, spesso equiparato a un feticcio da usare come scenografia (o, peggio ancora, come «location») per le più disparate attività, merita il dovuto rispetto, tanto più da parte delle istituzioni, per Legge deputate a tutelarlo e a proteggerlo dagli usi che il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio definisce, all’articolo 20, «non compatibili con il carattere storico o artistico [dei Beni culturali]» (arrivando a prevedere, all’articolo 170, l’arresto da sei mesi a un anno e un’ammenda fino a 38 mila Euro per chiunque adibisce a tali usi i Beni culturali).
Proprio la storia dovrebbe insegnarci a custodire gelosamente, e a valorizzare con intelligenza, il nostro patrimonio culturale e invece, ancora una volta, siamo disposti a scendere a compromessi, magari anche solo tacendo e inghiottendo l’amaro boccone, come fece nel Seicento il popolo brindisino quando si vide costretto, su pressione del viceré di Napoli, a «donare» una delle due colonne a Lecce. Chiediamoci: che futuro può avere una città che tratta in questo modo il principale simbolo del proprio passato? Il simbolo che dovrebbe dare dignità al futuro di Brindisi e dal quale, anni fa, è partito il suo riscatto culturale. Di questo passo, non siamo lontani dal disfarci anche di quanto resta della seconda colonna, essendoci disfatti già della sua dignità.
Teodoro De Giorgio – Storico dell’arte medievale