Autore: IN EVIDENZA Rubriche Vista da Roma

Il caso Carol Maltesi, narrazione tossica di un femminicidio

Chissà come sarebbe se – come cantava quel genio di Enzo Jannacci – si potesse assistere al proprio funerale, per «vedere di nascosto l’effetto che fa» o magari per leggere cosa scriverebbero e direbbero di noi. Chissà se la povera Carol Maltesi, uccisa e fatta a pezzi dal suo vicino di casa, sapesse che per molti ciò che conta in queste ore non è la sua vita ma la sua professione.
Di questa storia di cronaca, così efferata da far allontanare i TG per qualche ora dalla guerra, non sembra contare ad esempio che la vittima fosse una ragazza con sogni, ambizioni, desideri, che avesse avuto un bimbo a soli 20 anni. Non fa notizia che da giovane madre già separata si mantenesse lavoricchiando in qualche modo, che avesse delle passioni, per i viaggi per esempio, delle sensibilità. Come quando – un anno fa – affidò ai social una riflessione sulla violenza sulle donne, perché – raccontava – si trattava di un tema che aveva vissuto da vicino, incappando nel fardello pesantissimo dei pregiudizi.
No, leggere in questi giorni le notizie sull’omicidio di questa povera ragazza significa – spesso – tuffarsi nei titoli e nei commenti volgari, malvagi, pieni di insinuazioni. Qualcuno è arrivato a scrivere che «non si uccidono così, neanche le cattive ragazze», come se la sua professione rendesse Carol automaticamente una pessima persona, appunto.
Troppe volte questo concentrato di giudizi e cattiverie sembra convogliare più sulla vittima che sul carnefice. Da una parte il ragazzo «normale», il food blogger che improvvisamente «perde la testa», dall’altra l’attrice hard, la ballerina separata, la cubista, la pornostar. Si mette questo al centro della scena: il corpo femminile, ponendolo a servizio dei click e di un popolo del web sempre più incattivito. Si mostrano i tatuaggi, si pubblicano album online con le sue foto in versione cubista – o approfondimenti sui siti d’incontri – mentre accanto si descrive come è stata fatta a pezzi.
Non si tratta unicamente delle parole, che certamente tagliano come lame. Come molte volte accade in questi casi – femminicidi ma anche morti femminili sul lavoro – ciò che fa davvero la differenza è la narrazione. La scelta, cioè, di enfatizzare alcuni aspetti morbosi a vantaggio di una mera cronaca o di una riflessione – questa sì invece importante – sul vero dramma di queste storie: la lucida follia con cui uomini compiono delitti indicibili.

Nella ignobile gara dei click, invece, a questa guerra silenziosa, che lascia a terra una donna ogni tre giorni, si predilige la spettacolarizzazione del corpo martoriato, la pornografia del dolore declinata su qualunque aspetto della vita della vittima. E l’occasione, nel caso della povera Carol, era ancor più ghiotta, per la sua scelta di intraprendere un determinato lavoro, mentre questo aspetto in realtà non ha nulla a che vedere con la terribile vicenda. Se ci pensiamo, ci è mai capitato di leggere che è stato ucciso un postino, un ingegnere o un professore? No. Se non connessa alla vicenda, la professione della vittima rappresenta un elemento del tutto marginale. E invece in questo caso raccontare della «pornostar fatta a pezzi» ha senza dubbio tutto un altro sapore. Per non parlare di chi su questo atroce delitto ha voluto perfino costruire un momento spassoso, quel sedicente comico di Zelig che ha twittato una battuta disgustosa con riferimenti sessuali espliciti sulla povera vittima fatta a pezzi. Sarebbe mai avvenuto nel caso di una vittima maschile? Io credo proprio di no. Sembra invece ripetersi un fenomeno inquietante: più una vittima è bella, è giovane, nasconde una storia accattivante, maggiore sarà lo spazio dedicato al suo omicidio, che verrà rapidamente arricchito di particolari inutili e morbosi.
È accaduto nel caso di Carol come nel caso della giovane madre morta sul lavoro vicino Pistoia lo scorso maggio, come in tutti i recenti casi di cronaca che hanno riguardato giovani donne.
Sembra essere proprio quest’ultimo, infatti, il filo conduttore di questa storia. Molto semplicemente un fenomeno bestiale come quello dei femminicidi, un massacro che causa centinaia di vittime all’anno, fa notizia sempre e solo quando riguarda ragazze attraenti, magari con una sviluppata vita sociale, con dei profili web, e ancor più se queste donne sono uccise in modo estremamente violento.
Insomma spesso si dimentica quanto peso possano avere le parole, quanto possa influire sull’immaginario collettivo questa narrazione tossica con cui si sceglie di raccontare episodi così drammatici. Una narrazione che ferisce innanzitutto le famiglie delle vittime ma che contribuisce a semplificare e spettacolarizzare un fenomeno atroce com’è quello dei femminicidi nel nostro Paese. Parlarne meglio e parlarne di più sicuramente aiuterebbe.
Andrea Lezzi (Rubrica BRINDISI VISTA DA ROMA – Agenda Brindisi – 1 aprile 2022)

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