Se c’è una cosa nel corpo umano che fatica a stare ferma, questa è la mano. A volte possiamo anche rimanere immobili, ma le nostre mani difficilmente saranno a riposo. Tamburelleranno un tavolo, gratteranno la testa oppure – e qui che volevo arrivare – digiteranno nervosamente su una tastiera. Il medesimo manipolare ossessivo una volta riservato ai grani delle coroncine da rosario o al cubo di Rubik. Dall’homo faber all’homo digitalis la pulsione ad «usare le mani» è stata una delle caratteristiche umane più marcate. Si stringe, si svita, si battono i pugni, si mollano schiaffi, si toccano e muovono vari oggetti. Si è sempre scritto con una mano, la destra o la sinistra, poi, con l’uso della macchina per scrivere, si agì con entrambi gli arti e oggi ancor di più, con quel digitare ossessivo che martirizza i tasti degli smartphone.
In verità questa pulsione tensionale c’è sempre stata, anche se non agli attuali livelli di parossismo. Nei tempi passati i contadini intrecciavano giunchi per confezionare ceste, i signori giocavano con i bottoni dei gilet e con i sigari, mentre le dame sventolavano ventagli, sferruzzavano o sgranavano rosari. Poi vennero gli scoobydoo da annodare, i telecomandi da martoriare, sia quelli per la tv che quelli per le playstation. Tutti strumenti antenati degli attuali telefonini da picchiettare …
C’è sempre da fare qualcosa con quell’aggeggio polifunzionale: messaggiare, chattare, navigare, mettere like o faccine, fotografare, selfare, persino chiamare o rispondere. E’ ovvio che per fare tutto questo, non possiamo badare ai nostri vicini. Perciò si stravolgono tutte le leggi della prossemica e dei rapporti sociali. Oggi stare seduti affianco al bar o su un muretto non significa nulla: è come se fossimo ognuno in paesi diversi, agglomerati ucronici in cui tutto è contemporaneo di tutto e serve a generare confusione perenne e perdita del senso di realtà. Questo vivere in una dimensione falsata di realtà virtuale ci procura estraniamento e frustrazione, perché sentiamo di non essere più capaci di restare concentrati per prestare attenzione a qualcosa, e non riusciamo a venir fuori dalla bolla di indeterminatezza e di inadeguatezza: per questo diventiamo o depressi o aggressivi e violenti. Siamo passati dall’era della comunicazione a quella dell’informazione selvaggia che, reiterando le notizie più volte, ci lascia un senso di déjà vu mentre, nel contempo, proponendoci fatti di cronaca nera assai trucida, anestetizza la nostra sensibilità. Se gli adulte riescono in qualche modo a parare i colpi dell’iperconnessione e dell’iperinformazione, i giovani invece restano più esposti alla web dipendenza e alla disgregazione sociale prodotta dall’uso smodato di tablet, palmari, phablet e cellulari. Addio chiacchierate e chitarrate in comitiva, addio sport! E la pandemia ha peggiorato le cose. Auguriamoci un futuro «Rinascimento» salvifico.
Gabriele D’Amelj Melodia (Rubrica CULTURA – Agenda Brindisi – 5 marzo 2021)
Connessi, alienati e depressi
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