La storia di Willy Monteiro, massacrato senza pietà sabato notte nel centro di Colleferro, è una di quelle storie che fanno male al cuore. Per la sua brutalità, la cattiveria immotivata, per la banalità di un male che stentiamo a comprendere. Per la consapevolezza di una vita spezzata, quella di un ragazzo solare e generoso caduto sotto i colpi ininterrotti di belve rabbiose. Su questa storiaccia si è detto di tutto: se i giornali raccontano morbosamente ogni attimo di quella maledetta sera, i social network come sempre tracimano di titoli acchiappa like e commenti beceri, tra chi minimizza sull’accaduto e chi spara giudizi sommari, giudizi che fanno ugualmente ribrezzo per la loro crudezza. C’è poi qualche opinionista che se la prende con le discipline praticate dagli arrestati, un mix di arti marziali sempre più in voga in questi anni. Così come chi parte dall’analisi estetica degli indagati: dai loro tatuaggi, dai camicioni, dagli orologi d’oro degni di un remake di Scarface. Sia chiaro, sono aspetti che dicono tanto di una persona. Eppure è troppo comodo fermarsi a questo, a un giudizio superficiale. Quando, invece, c’è qualcosa di più profondo.
Ben pochi, soprattutto tra i politici, sottolineano l’aspetto culturale che c’è alla base di questa vicenda. Paradossalmente ho visto colpire molto più nel segno alcuni personaggi famosi che tanti rappresentanti del mondo politico, che spesso si sono fermati alla mera condanna dell’episodio, senza approfondire, senza andare oltre. E invece alcune cose vanno dette.
Già di per sè la comunicazione social è immediata, tanto rapida quanto leggera. E se anche chi ricopre ruoli pubblici si limita alla mera solidarietà, all’indignazione per prassi, nulla rimarrà nella mente di chi legge. Utilizzare questi strumenti per portare un contributo, per aprire una riflessione, è ciò che invece dovrebbe fare chi ha l’onore e l’onere di poter comunicare a una grande fetta di popolazione. Qualcuno l’ha fatto. Chiara Ferragni – non certo Che Guevara – ha parlato di cultura predominante in questi ragazzi, una «cultura di stampo fascista», un problema «che si risolve solo con l’istruzione».
Michele Dalai ha secondo me descritto bene la questione. «Il modello di mascolinità tossica» dei picchiatori di Colleferro, ha scritto il presentatore Rai, va cercato molto più nella televisione degli ultimi 20 anni, nelle trasmissioni trash in cui imperversano «mammoni con il petto gonfiato ad acqua e anabolizzanti, congiuntivi estinti, aggressività verbale, misoginia costante e incoraggiata». E ancora: più che nei discutibili tatuaggi nella disumanità dei social network, «privi di empatia», e nelle «dichiarazioni quotidiane dei politici influencer, nella continua teoria del diverso come pericolo, del nemico».
Si tratta di aspetti tutt’altro che marginali. Difendendo uno degli arrestati, suo suocero ha parlato di un ragazzo «attaccabrighe, che sbaglia i verbi e non conosce i congiuntivi». Un’osservazione bizzarra ma che in poche parole dice tanto. La pochezza di valori, la mancanza di un’educazione sana, l’enorme influenza dei modelli consumistici, riescono a svuotare una persona senza che nemmeno se ne renda conto.
«Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee», scriveva Hannah Arendt, «possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo». «Non era stupido, era semplicemente senza idee», e divenne anche banalmente cattivo.
Andrea Lezzi (Rubrica BRINDISI VISTA DA ROMA – Agenda Brindisi – 11 settembre 2020)
Nel dolore per Willy tanta ipocrisia
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